"Era l’odore della mia pelle che cambiava, era prepararsi prima della
lezione, era fuggire da scuola e dopo aver lavorato nei campi con mio padre
perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per
raggiungere la scuola di danza.
Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma
ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva
alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole. Era il senso che
davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia,
era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano
lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i
silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente
audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi.
Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era
impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non
sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi,
impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi
per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi alzavo
con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e
facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore di
canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta
tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una ballerina Elèna
Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto
me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni,
per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per
rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso
Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò
parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre.
Non resse la sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo
perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la
mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio
essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza,
della mia vergogna. Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre
ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente
sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.
Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi,
avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne soffrivo, la mia sofferenza
sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire
dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere
lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare.
Ero pittore, poeta, scultore. Il primo ballerino dello spettacolo di fine
anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in
silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e
mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu
diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i
miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava.
Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che
volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i
complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da
quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo
una nube lontana all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non
la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio
padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno
degli astri più luminosi della danza.
Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo
è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso. Ma
l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia libertà di essere. Sono
qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore. Io
danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà
ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di
sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica
ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi
sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed
unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita,
dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo
dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di
legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha
sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità
della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che
lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di
farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è
destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un
corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del
meraviglioso dono della vita…
RUDOLF NUREYEV